Dal Neonato all’Adolescente – II Edizione

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Data:
17/12/2010 - 18/12/2010
Ora:
10:30 - 19:30

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Luogo
Hotel Splendid La Torre


“Dal Neonato all’Adolescente” – II Edizione

Razionale del congresso

Limiti cronologici e realtà assistenziale per gli adolescenti

Sebbene dal punto di vista cronologico l’adolescenza non abbia limiti rigidamente definibili, usualmente, si tende a far coincidere il suo inizio con la comparsa dei segni di sviluppo puberale ed il suo termine con il raggiungimento dell’età adulta, cioè l’inizio dell’adolescenza viene identificato intorno ai 10-11 anni, mentre il suo termine è meno definito (Tabella 1). Un recente pronunciamento della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza ribadisce che l’adolescenza può essere generalmente collocata nel periodo tra i 10 e i 18 anni di età. Tuttavia, tenendo conto della tendenza sia ad un inizio più anticipato dello sviluppo puberale sia a un più ritardato raggiungimento di un ruolo indipendente e responsabile nella società, l’adolescenza può estendersi dagli 8-9 anni fino a tutta la terza decade di vita quando condizioni mediche, neuro-psicologiche o sociali ne alterino il fisiologico decorso.

Tabella 1. Limiti cronologici dell’adolescenza negli ultimi 30 anni
Paese Anno Limiti (anni)
Organizzazione Mondiale della Sanità CH 1975 10-20
Società Italiana di Pediatria I 1995 11-18
Accademia Americana di Pediatria USA 1995 11-21
Società di Medicina Adolescenza USA 1995 10–25
Società Italiana di Medicina Adolescenza I 2007 10-18°
°da tenere in considerazione che:

  1. inizio fin da 8-9 anni, se pubertà precoce/anticipata;
  2. estensione fino alla III-IV decade di vita nel caso di individui con patologie/disordini cronici (organici o neuro-psichiatrici) o rilevanti problematiche sociali.

In Italia, a livello territoriale, l’area di interesse e di competenza del pediatra di famiglia (PdF), secondo l’ultimo Accordo Collettivo Nazionale, comprende solo parzialmente l’età adolescenziale, avendo il PdF l’esclusività dell’assistenza fino al 6° anno, la possibilità facoltativa di seguire i propri assistiti fino al 14° anno, con l’ulteriore estensione (ma di non uniforme attuazione, a seconda dei diversi Accordi Regionali) fino al 16° anno per casi particolari e/o per patologia cronica.
A livello ospedaliero, nell’agosto 1987 il Consiglio Superiore di Sanità riconosceva l’opportunità del ricovero dell’adolescente in strutture pediatriche. Tuttavia, a fronte di un ricovero in Area pediatrica di oltre il 95% dei bambini nel primo anno di vita, solo il 51% di quelli tra 5 e 14 anni trova assistenza nei reparti a loro dedicati. Se poi si considera l’età adolescenziale più elevata (15-18 anni) solo il 12.2% dei soggetti trova assistenza in Area pediatrica, mentre il restante 87.8% è ricoverato in reparti per adulti. Gli adolescenti affetti da malattie croniche rappresentano la popolazione adolescenziale maggiormente rappresentata all’interno dei reparti pediatrici, anche se continuano a mancare spazi specificatamente dedicati a questi pazienti, negando nel momento del ricovero la loro differente identità e trascurando, a volte anche dal punto di vista comunicativo verbale e non verbale, un loro maggiore coinvolgimento nei percorsi di cura e nell’acquisizione del consenso informato.

Il problema della transizione dalle cure pediatriche a quelle dell’adulto
La Società Americana di Medicina dell’adolescente ha definito la fase di transizione come “un passaggio, programmato e finalizzato, di adolescenti e giovani adulti affetti da problemi fisici e medici di natura cronica da un sistema di cure centrato sul bambino ad uno orientato sull’adulto”.
L’attuale attenzione a questa delicata fase nasce dal fatto che:

  1. l’evoluzione delle conoscenze mediche ha nettamente migliorato la prognosi e la sopravvivenza di molte malattie croniche e/o disabilità, tanto che oltre il 90% dei bambini che nascono affetti da tali condizioni o le sviluppano in età pediatrica ha oggi un’aspettativa di vita notevolmente aumentata stimata oltre i 20 anni d’età;
  2. la transizione clinica è un processo multidimensionale e multidisciplinare, volto non solo ad occuparsi delle necessità cliniche nel passaggio dalla pediatria alla medicina specialistica dell’adulto, ma anche delle esigenze psicosociali, educative e professionali. Si tratta di un delicato processo dinamico, incentrato sul paziente, che deve garantire continuità, coordinazione, flessibilità, sensibilità, secondo linee guida prestabilite con una grande attenzione alle esigenze individuali;
  3. la strutturazione della fase di transizione non sembra essere ancora sufficientemente adeguata, come risulta anche da una recente indagine in Italia, che ha messo in evidenza come il 50% dei medici coinvolti non si ritenga soddisfatto dei risultati raggiunti e come non si sia ancora raggiunto un grado ottimale di organizzazione di questo processo.

 

Gli ostacoli che rendono difficile la transizione possono manifestarsi a vari livelli:

  • da parte del team pediatrico, per esempio, per il legame affettivo con il paziente, per la non completa fiducia o conoscenza delle strutture internistiche soprattutto riguardo a malattie solo recentemente arrivate alla cura degli internisti (es. malattie metaboliche), per l’interesse scientifico nel follow-up del paziente.
  • da parte dell’adolescente o giovane adulto, per la paura di affrontare un ambiente sconosciuto in cui può non avere un referente fisso, per l’assenza dell’appoggio dei familiari, che gli internisti tendono a coinvolgere molto meno intensamente rispetto a quanto venga fatto dai pediatri e per l’assenza di un ambiente dedicato alla sua età.
  • da parte della famiglia, che non si sente più un interlocutore importante  per il medico, anche se spesso continua a rappresentare per il giovane malato un sostegno indispensabile, anche dal punto di vista economico e sociale, con conseguente sentimento di esclusione riferito dai genitori all’atto della transizione.
  • da parte del medico dell’adulto, che su alcune rare patologie croniche congenite o ad insorgenza in età pediatrica può avere conoscenze teoriche e pratiche inferiori a quelle dei pediatri.

In pratica, nel nostro paese, la transizione è largamente frammentaria e pertanto mantiene i caratteri della volontarietà spontaneistica di cui si fanno carico fra mille difficoltà gli operatori sanitari di singole ed illuminate realtà locali. Manca una cultura specifica allargata agli amministratori, mancano i luoghi stessi della transizione; in questo panorama globale il più delle volte la transizione diventa una realtà largamente disattesa se non addirittura omessa.
Prendendo in considerazione questi ed altri fattori che possono rendere difficile la gestione di questa fase, sono comparsi in letteratura pediatrica differenti programmi di transizione, senza però che emergesse un modello unico, privilegiato e scientificamente validato.
Il primo modello – disease-based – è attualmente molto diffuso in USA ed Australia; consente ai ragazzi con specifiche patologie di transitare in un ambulatorio co-gestito per un certo tempo da uno specialista pediatra e da un medico dell’adulto: tipico esempio l’ambulatorio diabetologico condiviso (joint-clinic); si tratta di un’esperienza abbastanza seguita anche nel nostro paese.
Il secondo modello assistenziale, prevede invece spazi dedicati ai ragazzi dove le figure tutoriali siano esperti non di patologia ma d’area assistenziale. In sostanza si tratta di formare ed attivare sevizi propri rivolti all’adolescenza. L’obiettivo stategico, anche se dispendioso, è di imbastire una rete globale orientata alla gestione del paziente in età transizionale, alla quale aggregare anche i medici di cure primarie siano essi pediatri di famiglia o medici generalisti.

Indipendentemente dal modello, alcune raccomandazioni generali devono essere tenute presenti nel tentativo di organizzare una propria modalità di transizione:

  • Età del trasferimento: non esiste un “momento” fisso anche se molti considerano i 18 anni oppure l’età in cui viene lasciata la scuola come età a cui fare riferimento in modo flessibile, poichè ciò che conta è la maturità raggiunta dall’adolescente nella gestione della propria malattia.
  • Periodo di preparazione e programma di educazione: da iniziarsi nella prima parte dell’adolescenza che tenda a “far comprendere la natura della malattia, il razionale del trattamento, la causa dei sintomi e a far riconoscere un eventuale peggioramento e le misure per contrastarlo oltre che le modalità per chiedere l’aiuto del personale sanitario e per orientarsi nel sistema sanitario”.
  • Processo coordinato di trasferimento: va sviluppata e realizzato coordinata un’azione congiunta (ad esempio ambulatorio di transizione) con la struttura degli adulti destinata a seguire il singolo paziente, che permetta una reciproca conoscenza e un passaggio coordinato di consegne tra le equipes mediche. Nei sistemi sanitari anglosassoni un ruolo importante in questo senso viene svolto dal personale infermieristico. Sia l’incontro tra il paziente ed il futuro specialista, prima della transizione clinica, sia la presenza del pediatra, durante la prima visita presso la medicina dell’adulto, sembrano essere di notevole efficacia nel successo del trasferimento. Indubbiamente, una vicina localizzazione dei due servizi, eventualmente all’interno dello stesso complesso ospedaliero, agevola la compliance al cambiamento. A questo proposito tra le carenze segnalate nell’indagine condotta in Italia emerge la mancanza di comunicazione tra pediatri ed internisti/specialisti dell’adulto, unitamente alle rispettive differenze nella gestione e nel trattamento della patologia cronica. Questo sottintende essenzialmente l’assenza di linee guida condivise da entrambe le figure professionali coinvolte.
  • Coinvolgimento del pediatra di famiglia e/o del medico di base: in molte esperienze è stata segnalata la scarsa partecipazione del medico delle cure primarie (pediatra di base o medico di medicina generale) al processo di transizione; al contrario, si tratta di una figura professionale indispensabile che dovrebbe essere intensamente coinvolta nell’intero processo. Questa situazione è spesso riconducibile alla scarsa capacità di comunicazione tra i medici specialisti delle strutture ospedaliere ed i medici del territorio, per cui informazioni ritardate, inprecise o frammentarie, spesso riportate dal paziente al medico di base possono determinare influenze negative che tendono a ripercuotersi sul paziente, sulla continuità assistenziale, nonché sul personale rapporto di fiducia medico/paziente.

Conclusioni e obiettivi del Convegno
Appare oggi indispensabile che i vari “attori” che possono svolgere un ruolo nella fase della transizione (personale sanitario e amministrativo, società scientifiche, responsabili di strutture sanitarie, associazioni di genitori ecc) elaborino, nelle varie realtà in cui i pazienti si trovano a vivere, dei percorsi che da un lato facilitino il passaggio dall’organizzazione pediatrica a quella dell’adulto e che dall’altro garantiscano il completo soddisfacimento di quel concetto di “care” globale, che viene oggi considerato indispensabile per un’assistenza di qualità.
Il Convegno si pone quindi l’obiettivo, esaminando un modello di patologia cronica complessa come il deficit di GH, di realizzare un aggiornamento comune tra pediatri di famiglia, medici di medicina generale, pediatri endocrinologi e endocrinologi dell’adulto ai fini di elaborare ed adottare delle linee di comportamento condivise applicabili, eventualmente con opportune modifiche, anche ad altre patologie e a mettere in evidenza anche le implicazioni medico-legali legate ad una non ottimale gestione del processo di transizione.

Dr. Piernicola Garofalo
Dr. Salvatore Chiavetta

 

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